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INTERVISTA RILASCIATA DA FABRIZIO CARUCCI A “SUL ROMANZO”

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INTERVISTA RILASCIATA DA FABRIZIO CARUCCI A “SUL ROMANZO”.

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Ho iniziato a scrivere quando avevo 14-15 anni. Era l’età della ribellione, dei jeans strappati, dei piercing, del punk, del grunge. Ho cominciato scrivendo i pezzi della mia band di allora, i Mokullas.
Da allora non ho mai più smesso di scrivere e il mio rapporto con la scrittura è diventato sempre più importante. A volte scrivevo per bisogno di esternare i miei sentimenti più profondi, a volte trovavo nella scrittura un mezzo per esternare lo sdegno verso le ingiustizie sociali. A volte, semplicemente, scrivevo perché mi annoiavo. Passo dopo passo ho maturato l’idea di scrivere dei racconti, poi ho iniziato a scriverli. I miei primi racconti li ho pubblicati nel 2002 per un giornale umanista di Roma, 361 Gradi. Un giornale che avevo fondato insieme ad altri studenti con cui condividevo la passione per la scrittura in tutte le sue forme. I miei racconti su 361 gradi hanno avuto un buon riscontro da parte dei lettori. Il mio racconto veniva quasi sempre pubblicato in prima pagina. Purtroppo poi i nostri impegni, miei e del resto della redazione, sono aumentati e 361 gradi è naufragato. La mia passione per la scrittura no, anzi, più crescevo e più simbolizzavo lo scrivere come una missione. Nel 2002 ho iniziato a pensare di scrivere un romanzo, poi ho iniziato a scriverlo. Dopo alcuni goffi tentativi ho trovato un tema che mi interessava molto e su cui mi veniva naturale scrivere: la perplessità. Perplessità relativa alla nostra epoca, al modo in cui gli umani si relazionano, alla politica, all’inappagabile bisogno di apparire dei miei contemporanei, al sadismo dell’essere umano nei confronti dell’ambiente, all’abuso di tecnologia, alla droga come veicolo di socializzazione tra i giovani. Ero perplesso e vedevo perplessità intorno a me. La vedevo nei miei amici, nei miei genitori, nei miei professori dell’università, nelle persone in metropolitana. Ero e sono perplesso su quello che accade nella mia epoca. Credo che la perplessità, la confusione, sia il primo passo verso il progetto di un mondo migliore possibile. Ma per confrontarsi col dubbio, per attraversare matrici di significazione egemoni, per decostruire vecchie risposte, per fare tutto questo ci vuole il coraggio e la fatica di ospitare nella coscienza la perplessità, porsi continuamente domande e non avere né la pretesa né fretta di trovare le risposte. E’ per questo che ho intitolato il mio romanzo “Storie di iperperplessi”. Nel 2005 l’ho finito e l’ho pubblicato a Luglio del 2009 per Edizioni Montag.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Non considero la razionalità e l’irrazionalità come due canali diversi o come due diverse fonti da cui attingere per creare. Credo che ogni atteggiamento, ogni comportamento, ogni creazione, ogni narrazione, tutto, sia l’esito dell’interazione due modi di essere della mente, quello irrazionale-inconscio-simmetrico e quello razionale-conscio-asimmetrico. Credo che questi due modi di essere della mente siano sempre compresenti e co-determinanti la creatività e ogni condotta dell’essere umano.
Cercando di rispondere in modo più lineare alle sue domande posso affermare che, porsi davanti ad un foglio bianco, secondo me, implica una regressione verso dimensioni profonde e irrazionali delle personalità, zone d’ombra difficilmente accessibili. La pagina bianca attrae pensieri sommersi, emozioni evacuate dalla coscienza.
La scrittura introspettiva, la ricerca della catarsi, la liberazione dei propri vissuti pesanti, spesso questi sono i motivi che spingono lo scrittore a prendere per la prima volta una penna in mano. Strutturare testi narrativi però è una cosa diversa, il tempo e le pagine bianche riempite insegnano a trasformare le emozioni in storie, ad armonizzare la dimensione pulsionale con la dimensione razionale e ad integrare razionalità e irrazionalità all’interno di un testo. Per concludere, credo che una narrazione piacevole proponga un equilibrio tra razionalità e irrazionalità ed è quello che provo a fare nei miei testi. In sintesi, in relazione al focus della domanda da lei proposta, posso affermare che nei miei testi mi pongo in modo equidistante dalla razionalità e dall’irrazionalità, cerco di fare in modo che queste due dimensioni siano in equilibro.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Beh, Moravia, stiamo parlando di un grande romanziere Italiano, il più grande considerando il fatto che Pasolini si è dedicato molto meno di lui ai romanzi. Moravia, dopo la malattia e il lungo periodo di convalescenza, ebbe il suo successo con gli Indifferenti a 22 anni e da allora ha potuto dedicarsi in modo sistematico alla scrittura. Per me la questione è diversa, non posso dedicarmi tutte le mattine alla scrittura altrimenti il mondo casca davvero. Mi dedico alla scrittura quando sono libero da impegni lavorativi (ho fatto l’educatore in una casa-famiglia per adolescenti a rischio nella periferia a Sud di Roma) e universitari (sono laureato in psicologia e attualmente sto ultimando il mio percorso di laurea specialistica in psicologia clinica).
Non ho dei rituali rigidi quando scrivo, mi piace avere tutte le finestre aperte, qualcosa da bere e il suono del silenzio intorno, tuttavia non trovo queste cose indispensabili per scrivere.
Di solito scrivo a casa, non sempre. Mi capita più spesso di scrivere la sera e la notte ma, se potessi, passerei tutta la mia vita a leggere, scrivere e viaggiare. Non attendo l’ispirazione, trovo stimoli a scrivere continuamente. Credo che se si guardi al mondo senza pregiudizi tutto diventi nuovo e affascinante. Certo, ci sono cose che mi colpiscono più delle altre, talvolta mi capita di sentire la necessità impellente di scrivere, come fosse una fiamma che rischia di spegnersi, si tratta d’intuizioni sfuggenti, insight rarissimi, pensieri divergenti, lampi, mi capita anche questo, ma scrivere per me è un’attività quotidiana.
La dimensione che fa spesso da sfondo alle mie narrazioni è la surrealtà che farcisce la realtà e, quando ci si pone delle domande senza la pretesa e la fretta di trovare le risposte, materiale da narrare ce n’è tanto sotto i nostri occhi. Credo sia questione di taglio, di punti vista.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Di un foglio bianco, delle mie cognizioni e delle mie emozioni. Le finestre aperte, il suono silenzio e qualcosa da bere sono elementi che gradisco, ma non sono indispensabili. Mi capita di scrivere in posti diversi, mi capita di farlo a casa, all’università, nei parchi, per strada, nell’autobus. Credo che le ossessioni e le compulsioni, i rituali, siano delle difese erette per difendersi dal fatto che la scrittura fa sprofondare nelle zone più buie della coscienza e anche dell’incoscienza. I rituali permettono allo scrittore di non perdere l’orientamento, di sapere sempre chi è di fronte all’oscurità e alla profondità del suo essere. Credo che i rituali diano tranquillità e sicurezza ma che, allo stesso tempo, limitino la facoltà di aprirsi completamente di fronte all’infinita possibilità di significati con cui dare senso ai mondi nudi. Ebbene, io quando scrivo amo perdermi, dimenticare chi sono e come vedo il mondo. Mi piace sprofondare nei mondi nudi. Davanti ad un foglio bianco, amo smarrirmi, attraversare matrici di significazione, sciogliere opinioni sature, difensive e reificate. E’ per questo preferisco fare a meno di rituali indispensabili quando scrivo, mi ricorderebbero continuamente chi sono e come vedo il mondo.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Io ho attraversato tutta l’Italia per fare due chiacchiere con la tomba di Pasolini a Casarsa della Delizia.
Gli scrittori del passato, dipende, non credo di scrivere all’ombra dei grandi poeti del passato come Keats e neanche “sputerei” sull’altare dell’arte come Marinetti. Non sono un iconoclasta e non credo neanche che l’arte si possa scomporre nelle categorie del prima e del dopo. Credo che l’arte sia sempre con un piede dentro e un piede fuori dall’epoca in cui viene prodotta. L’arte, secondo me, è nel tempo ma anche fuori dal tempo.
Gli scrittori del passato, sono debitore a molti di loro, ma anche a molti scrittori contemporanei. La mia passione per la lettura ha sempre affiancato quella per la scrittura. Ora ho ventisette anni, ho iniziato a leggere assiduamente intorno ai quindici anni, allora leggevo soprattutto autori di narrativa fantastica, Poe, Hoffman, Meyrink. Sempre in quel periodo ho letto molte opere dei poeti decadentisti, in particolare Baudelaire e Varlaine. Più tardi, verso i 18 anni, ho iniziato a leggere molti autori del neorealismo Italiano: Moravia, Pasolini, Pavese, Levi. Poi è venuta la mia passione per Freud che mi ha portato a iscrivermi a psicologia. All’inizio del mio percorso universitario leggevo soprattutto narrativa americana: Kerouak, Miller, Ginsberg, Bukowski, Carver, Wallace. Altri autori che ho letto durante il periodo universitario e che mi hanno colpito particolarmente sono: Prevért, Gibran, Blake, Whitman, Plath, Beckett, Ionesco, Bennett, Fo, Pirandello, Kafka, Pessoa, Orwell, Burgess, Twain, Dostoevskij, Jodorowky, Marquez, Hornby. Attualmente sto leggendo molta narrativa italiana contemporanea, in particolare, Raimo, Morozzi, Lodoli, Parrella, Pincio, Salas, Bonvicini, Pennacchi, Lupi.
Come è cambiata la mia relazione con gli scrittori del passato attraverso il tempo? Credo che il tempo mi abbia permesso di maturare come lettore. Quando era un lettore meno esperto mi capitava di idealizzare molto gli scrittori che stavo leggendo, di farne troppo precocemente dei geni portatori di verità assolute. Col tempo sono diventato un lettore più cauto e attento.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Io vivo a Roma da otto anni. Roma è un posto dove c’è una forte concentrazione di bravi scrittori, di associazioni, di case editrici, di vetrine, di luoghi e di eventi che gravitano intorno alla letteratura.
L’avvento delle nuove tecnologie, blog, social network ecc…, riduce certamente la distanza tra centro e periferia. Il recente successo del romanzo di provincia “Gli interessi in comune” di Vanni Santoni è una delle tante conferme che testimoniano le potenzialità delle nuove tecnologie inerenti la comunicazione. I blog, i social network, la piccola e media editoria, sono sicuramente degli elementi che ammortizzano la distanza geografica tra centro e periferia, tuttavia credo che i canali comunicativi che contano, quelli con grossa visibilità e distribuzione siano ancora retaggio di un’oligarchia editoriale. Credo che la dimensione della casta e la cultura familista che caratterizzano vari ambiti della società italiana non risparmino affatto letteratura. In sintesi credo che le nuove tecnologie abbiano diminuito la distanza geografica tra il centro e la periferia, ma mi sembra che allo stesso tempo il potere oligarchico editoriale determini chi sta vicino e chi sta lontano al di là della geografia.
Per quanto riguarda la geografia fisica, se è vero che le nuove tecnologie riducono la distanza tra centro e periferia, è anche vero che le occasioni di crescita e di sviluppo che offre una grande città, Roma per esempio, non sono quelle che offre un paesino di provincia o una piccola cittadina di periferia.
Le nuove tecnologie danno sicuramente una mano agli scrittori di periferia e alla diffusione della conoscenza nella periferia, ma esistono ancora luoghi di concentrazione di scrittori, Roma in primis, e soprattutto oligarchie editoriali centrali a cultura familista.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Non so se scrivere abbia migliorato o peggiorato il mio percorso di vita. Sicuramente scrivere mi ha cambiato.
La letteratura mi ha permesso allo stesso tempo di vestire e di spogliare la realtà. Non riesco neanche a immaginare la mia vita senza la letteratura. E’ per questo che non so dirle se scrivere abbia migliorato o peggiorato la mia vita e se abbia illuminato la via che conduce verso i miei desideri.

La ringrazio e buona scrittura.

Grazie a lei per l’attenzione e lo spazio che mi ha concesso.

http://www.fabriziocarucci.wordpress.com
Su questo blog potete leggere l’introduzione a “Storie di Iperperplessi” (Montag edizioni, 2009) e alcuni miei racconti inediti.

(Questa intervista è pubblicata anche sul blog “Sul Romanzo”).

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